mercoledì 15 Gennaio 25

La bocca dello scorfano

La metafora regalatami da Giovanni Guarino. Il carattere infingardo dei tarantini. Del mio popolo. E quella chiacchierata riservata con l’attuale sindaco della città dei due mari poche settimane prima che si celebrassero le amministrative

Come la bocca di uno scorfano. Grande. Esageratamente grande. Ma senza costrutto. Priva di contenuti. Dislessica. Una bocca dalla quale far discendere un vociare chiassoso e finto. Grossolano. L’attore Giovanni Guarino mi raccontava che suo nonno definiva i tarantini come nient’altro che la bocca di uno scorfano. Gente infingarda, schiava di un’indolente pigrizia. Di un dinamismo votato alla passività. Di un movimento statico. Gli adagi popolari definiscono la dimensione collettiva meglio di alcuni trattati di antropologia culturale presi assieme. Ne era convinto, e persuaso, anche Ernesto De Martino. Il suo etnocentrismo critico sta a dimostrarlo. Gli studi sulla relativizzazione di una dimensione culturale propria, nel senso che non contempla quella altrui, l’altro che è in noi, avvalorano questa impostazione teorica. Invertire la dannazione dei contenitori senza contenuto è operazione possibile in questi tempi smemorati? La domanda ultima in fondo è questa? Combattere il destino iscritto nei nostri codici comportamentali è tentativo praticabile? Penso di si. Sinceramente. Guai a svuotare la nostre esistenze di quell’ottimismo della ragione che tante volte ha gareggiato con la Storia. Anche la più impervia. Persino la più turbolenta. Taranto, se volessimo restare alla metafora dello scorfano – e della sua bocca sgraziatamente grande – dovrebbe imporre a se stessa un cambio di marcia. Nei metodi adottati. Nel merito perseguito. Andrebbe sottoscritto un patto generazionale tra quarantenni e cinquantenni. Definite le caratteriste – e il perimetro d’azione – dei costruttori di futuro. Un’idea, questa, che sottoposi all’attuale sindaco in un colloquio riservato di qualche mese fa, prima che si celebrassero le elezioni. Abbandonare il passo anarchico e individualista per abbracciare un moto corale. Rendere la nostra marginalità centralità ritrovata. Non indietreggiare dinanzi all’avanzata dell’avvenire. Restare sordi al richiamo della subalternità. Sull’ex Ilva, i Giochi del Mediterraneo, la definizione di un nuovo protagonismo geopolitico, invece, segniamo il passo. Siamo indietro quando pensiamo di essere avanti. E scontiamo i danni che le finte accelerazioni producono sulla memoria sociale. La temporalizzazione della complessità è il tratto distintivo della modernità. Perché da ogni grandezza, passata e futura, non discenda la tragedia. Che poi sarebbe un altro modo per cimentarsi con la bocca dello scorfano.   

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