giovedì 21 Novembre 24

Qualcuno cerchi il filo di Arianna

Maggioranza appesa ad un filo. Il numero 17 continua ad uscire sulla ruota della (s)fortuna di Taranto. A Melucci, giunti a questo punto, non resta che fare un’ultima cosa. Proprio come il patriarca – e il suo autunno – raccontatoci da Gabriel Garcià Màrquez

Difficile continuare così. Quasi impossibile governare in queste condizioni. Tra Taranto e il numero diciassette è in corso, da tempo, una disputa. Un litigio amoroso. Un gioco a rincorrersi sulla ruota della (s)fortuna. Una spola tra lo studio notarile e l’Aula consiliare. Se torturi i numeri abbastanza a lungo, alla fine confesseranno qualsiasi cosa. Dichiareranno, insomma, quello che è certo al di là di ogni ragionevole dubbio. E cioè: la maggioranza del sindaco di Taranto è appesa ad un filo. Diverso – e uguale – da quello di Arianna. Che dovrà condurre fuori dal labirinto di Palazzo di Città in luogo di quello di Minosse. Accompagnare oltre la porta una legislatura che ha già dato il peggio di sé. Melucci ricorda ‘L’autunno del patriarca’ di Gabriel Garcià Màrquez. I nemici che tramano all’interno della sua corte, fanno dire al patriarca-dittatore: “La menzogna è più comoda del dubbio, più utile dell’ amore, più durevole delle verità”. Ma con la menzogna veritiera che racconti a te stesso, quella di un governo cittadino che non raccoglie più alcuna simpatia tra i tarantini, disturbante nella sua finta tracotanza, non si amministra una città grande e difficile come Taranto. Semmai ci si trascina stancamente al traguardo. Si vive il giorno per giorno, mancando la prospettiva d’insieme.

La debolezza di Melucci rischia di divenire un alibi per non centrare gli appuntamenti annotati sull’agenda sociale del capoluogo pugliese. Come ti approssimi ai Giochi del Mediterraneo con una salute istituzionale così cagionevole? Come indirizzi le risorse della transizione ecologica? Come disegni il nuovo Piano Urbanistico Generale? Già, come? Servirebbe uno scatto di reni, un’uscita di scena dignitosa. Ammettere la propria inadeguatezza, l’inconciliabilità di certi caratteri che uccidono i talenti. Dichiarare ciò che poteva essere e non è stato. E, con la stessa sicumera del patriarca chiuso nella sua fortezza di cartone, candidamente affermare: “Alla fine di tanti e tanti anni di illusioni sterili avevo cominciato a congetturare che non si vive, cazzo, si sopravvive, s’impara troppo tardi che perfino le vite più estere e utili non sono sufficienti ad altro che a imparare a vivere…”.

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