DI MARCO TARANTINO
Valentina Petrini, giornalista, conduttrice e scrittrice tarantina (dei Tamburi) ha incontrato nell’auditorium palagianese gli studenti del ‘Flacco-Sforza’: ‘Il Cielo sopra le polveri’, fresco vincitore del Premio Leogrande, è un libro, più che “necessario”, imprescindibile
IN FONDO, per riassumere storia e incubo ci si potrebbe rivolgere all’oramai celebre refrain de ‘ ‘U Vurpe’ del grande Mimmo Cavallo: tu no, tu ‘nò tte stùte màje. Ma i libri si leggono dall’inizio, anche quelli il cui finale è prevedibile come una mareggiata a novembre. Quello di Valentina Petrini, giornalista, scrittrice e conduttrice (‘Nemo – Nessuno escluso’ su RaiDue, ‘Fake, la fabbrica delle notizie’ su Nove), tarantina dei Tamburi prima e di Paolo VI poi (“E’ sempre lì che torno, sto più lì che a Roma”), si chiama ‘Il cielo sopra le polveri’ e tre settimane fa ha vinto il prestigioso premio dedicato ad Alessandro Leogrande (con il quale Valentina lavorò). Negli stessi giorni, a proposito di tarantini straordinari di cui Taranto geneticamente se ne fotte, che da Taranto hanno ricevuto soltanto precarietà e che per tutta risposta a Taranto hanno donato sponde di luce, anche Mimmo Cavallo ritirava, dalle mani di Mariella Nava, l’ennesimo riconoscimento all’internazionale ‘Tulipani di seta nera’. In argomento, non va dimenticata – anzi – la tarantina Alessandra Ondeggia, col suo pluripremiato corto realistico più che distopico – agghiacciante, visionario, pre luglio 2012 – ‘Wasted – Terre al margine’. Wasted si può tradurre con cose come avvizzito, crepato, agonico, devastato: morente. Fate un mazzo delle questioni, metteteci al centro l’ex Ilva, in testa il camino E312 – il più alto d’Europa – e il gioco sarà fatto. Il solitario, anzi, anche se parliamo sempre di un gioco di carte che non c’è bisogno di truccare: tipo l’Ergastolano, lo conoscete?
Uno di quelli che si chiamano così proprio perché non riescono mai.
Proprio perché non riescano mai.
VALENTINA ha da poco passato i quaranta, è bella e ne dimostra dieci di meno, ha un bellissimo bimbo di tre, Valerio, e sa di cosa parla.
Lo sa per tanti motivi.
Lo sa perché suo padre, Isidoro, operaio e sindacalista è nato e vissuto ai Tamburi, di cui è stato calciatore nella Libertas, il che vuol dire aver pestato un suolo, guancia al cimitero, che oggi è stato finalmente, dolorosamente azzerato e che già trent’anni fa a carotarlo avrebbe battuto all’asta cento metri cubi di tumori a scelta. Lo sa perché è cresciuta negli Ottanta in via D’Azeglio, che ormai consapevolmente chiamavano la via delle vedove, un funerale al giorno; un decennio in cui, a differenza del precedente, chi portava i ceri al prete cominciava a capire che crepare così male non era precisamente la volontà di Dio, e che a differenza dei Settanta c’era poco da ridere felici in faccia a docenti, impiegati, funzionari, capufficio, ho la terza media, lavoro in altoforno e con gli straordinari a pioggia guadagno il doppio di te, tu e la tua laurea, ficcatela devo dirti dove? Lo sa perché poi con la sua famiglia si è trasferita a Paolo VI, e in testa non le cadeva e nel naso non le entrava meno polvere di ghisa. Lo sa perché suo nonno arsenalotto è morto di cancro e sua madre fortunatamente ne è guarita. Lo sa perché, sebbene così giovane, quando parla di un articolo dice ancora: 4mila battute, non caratteri. Lo sa perché intorno le mistificazioni le hanno arroventato il fegato, prima del cuore, e forse è per questo che gran parte delle sue inchieste professionali (libro precedente incluso) sono state e siano dedicate alle fake, le bugie (poco) gratuite, le puttanate strategiche, laceranti e soprattutto metastatiche come la sorte nera di cui parliamo qui. Lo sa perché viene dalla vecchia scuola, la scuola eterna dei giornalisti eterni e forse no, i giornalisti preistorici che furono cavalieri e sognatori, che erano e a volte (a quanto pare) ancora sono capaci di bucarsi le scarpe e di sedersi sui gradoni come Montanelli in Ungheria e la sua 22 addosso, ad Arezzo in pieno lockdown per ripescare il diario seppellito del dr. Leccese (il primo, nel ’66, da ufficiale sanitario ad avere le palle di sputtanare gli sversamenti dell’allora Italsider, vincendo la querela contro il democristiano Corriere del Giorno), fingendosi profuga lungo i Balcani nel 2015 al seguito di una famiglia curdo-siriana per testimoniarne il calvario, a piedi e con le bolle spaccate, altro che Google. Lo sa perché è andata a prendersi lungo un decennio uno per uno i documenti che contano e pure quelli che vennero sepolti, ignorati o minimizzati dalla stampa complice, (“Nella sua quasi totalità”, scrisse Patrizia Todisco: se l’ingoiarono tutti, qui, muti: e ti credo), atti, sentenze, foto, testimonianze, dati, cornici, targhe, manifestini mortuari. Lo sa perché è stata l’unica cui appunto Todisco, la giudice che nel luglio del ’12 scoperchiò il verminaio dell’Ilva dei Riva, venendo per conseguenza isolata e ingiuriata (“abnorme”) da successivi colleghi e cronisti anche della stampa nazionale (‘La zitella rossa’), abbia concesso fiducia e intervista, per un capitolo che del ‘Cielo sopra le polveri’ è un passaggio imprescindibile. Lo sa perché l’UE, come lei ci rivela, ammette emissioni cancerogene, quindi mortali, di agenti come il benzo(a)pirene per una quota due volte più alta di quella accertata, a livello mondiale, dall’OMS.
Lo sa perché si è posta il coraggio dei suoi dubbi, uno su tutti: ma io sono fuggita?
Lo sa perché qui (e non soltanto qui), nel naufragio wasted del tutto degno del corto di Ondeggia, quel che resta del giornalismo ha benedetto, permesso, sottoscritto, rimasticato, e oggi a più livelli si professa ambientalista (della quinta e sesta ora, scende la pioggia ed è di merda, ma che fa). Lo sa perché l’Ordine di Puglia, la cui tessera sono dolorosamente felice d’avergli strappato in faccia dopo quasi 34 anni (perdonate la nota personale), ha messo la testa sotto la sabbia pur di chiudere gli occhi davanti a chi lo disonorava, e che oggi può liberamente dirigere testate.
Lo sa perché aver scritto questo libro, tornando da Roma nei luoghi che le scorrono nel sangue e che le strozzano la gola, attraverso le tragedie di Lorenzo Zaratta, nato col cancro al cervello e morto a cinque anni, di Peppino Corisi e la sua targa sul balcone delle croci, di Francesco Zaccaria, che nel tornado del 2012 cercò rifugio nella gru che credeva sicura ma è lì che lo aspettava la Morte, lo sa perché un rigo dopo l’altro ha trascinato con sé l’angoscia della sua coscienza senza alcun’altra colpa che non sia quella dei lenzuoli stesi bianchi e ritirati neri in via Verdi o in piazza Gesù Divin Lavoratore: “Taranto è una città avvelenata. Anch’io mi sento avvelenata”.
Lo sa perché ormai tanti, tutti, scrivono del Siderurgico: rampolli fancazzisti altrove, che chattano e scrivono e pontificano da lontano con la paghetta di papà, doppiogiochisti, voltagabbana, professoroni e professorali, politici e politicanti, cronistorici con troppo tempo libero, professionisti del senno di poi un tanto a gettone, bibliotechisti, prefiche un tanto a funerale (pure quello – si sa – è un mestiere).
Gente che da via Orsini c’è passata soltanto per andare a trovare una zia a Statte, che sulla Tragedia millanta tutto, che sullo Stabilimento apre la bocca a uecchio e che del rione Tamburi non conosce un cazzo.
Però se lo intesta.
E con che lacrime.
Da rovinare la cipria.
Da far cadere il neo.
Finto pure quello, e vuoi vedere: è un minuetto.
Ci mancherebbe.
LO CHIAMARONO riscatto sociale e se ne riempirono i contratti, istituzioni e quadri o pentapartiti a giro, benedizioni cardinalizie della diccì salmodiante e pure del piccì protestante che però sotto i camini in testa alla città, dentro la città, stendeva i suoi tappeti (rossi, no? Mea culpa di Napolitano, opportunamente tardivo). Ai tempi del raddoppio della produzione, anni Settanta, tanti, tutti gonfiarono il petto, i fatturati, i salari e gli altoforni.
Per strada, dev’essersi consumata la esse. “La logica del profitto”, ha scritto la Gip Todisco nella sua ordinanza di quasi undici anni fa, ha calpestato “le più elementari norme di sicurezza”. Ciò che dunque alla fine è rimasto è un ricatto sociale che dopo almeno due decine di Salva Ilva (dichiarati tecnicamente aiuti di Stato dalla Corte Europea) ha posto e continua a porre la questione fallita in partenza e risolta all’arrivo con la risposta sbagliata: salute o lavoro? Tutt’al più, ipocritamente: salute e lavoro. Lavoro, lavoro, hanno detto i governi, da Berlusconi a Letta a Renzi a Monti ai due writers di Conte, mettendo i cordoni e i cartoni della pizza sotto al letto, così da fingere che la stanza fosse stata pulita, mamma, contenta? Salute, ha risposto Valentina, che porta fatti oggettivi e le opinioni le dichiara con lealtà: “C’è una percentuale di popolazione sacrificabile? E se sì, come si calcola? E chi deve calcolarla? E chi deve sacrificarsi?”
I suoi cento minuti di passione nell’auditorium dello ‘Sforza’, sede palagianese del ‘Flacco’ di Castellaneta, resi possibili da Legalitria (straordinario progetto di lettura che coinvolge tutte le scuole italiane), hanno acceso, inquietato, attratto, colpito gli studenti, splendidamente preparati dai docenti Carmine e Daniela Montemurro, con interventi alternativi e profondi tipo quello del prof Michele Labalestra (l’ex sindaco su due mandati cui Palagianello deve tantissimo). La prof.ssa Patrizia Rollo, responsabile di sede, ha fatto gli onori di casa: “Valentina Petrini ci regala un punto di vista che mette insieme i nostri. Senza estremismi, senza militanze. Strumenti per crescere. Non lavoriamo per altro”. Gli interventi dei ragazzi della 2B, 5B, 5C hanno riempito una mattinata, quella di mercoledì 24, che avrebbe potuto inoltrarsi sino alla sera, tranne che c’è sempre un punto in cui bisogna mettere un punto.
Nonché, da qualche parte, una campana che suona.
Per chi suona, si chiese Hemingway.
Lo sappiamo per chi suona, qui.
E sì, le ha chiesto Marco Nilvetti, 4A LS, lo ha detto lei: anch’io mi sento avvelenata. Allora il libro è stato un antidoto?
Un dito sul viso. Una pausa. “E’ stato il mio psicanalista”.
Ci sono navi, scrisse Fernando Pessoa, “dirette verso molti porti, ma nessuna verso dove la vita non è dolore”.
E hanno attraccato tutte qui. Neanche una è rimasta alla fonda, fuori.
C’erano un sacco di moli.
Siccome è un cazzo di porto, il nostro.
Mica robetta.