A darne l’estrema unzione è Franco Bernabè sul numero di Affari&Finanza in edicola domani. Le privatizzazioni dei governi dell’Ulivo, quelle volute da Prodi e Bersani a metà degli anni ’90 del secolo scorso. La destra al potere a digiuno di cultura economica e non solo di quella. CosmoPolis vi racconta, con la solita irriverenza, quanto non potrete leggere sul supplemento del lunedì de la Repubblica
“La situazione dell’Ilva è grave”. Cosi parlò, Franco Bernabè. Anzi: così parlerà domani su Affari&Finanza, il supplemento economico del quotidiano la Repubblica. Il rappresentante del socio pubblico (Invitalia) in Acciaierie d’Italia, a differenza di Ennio Flaiano, non solo ammette che la situazione è grave ma non fa mistero di riferirne anche la serietà. Puntare tutto sulla decarbonizzazione per salvare il salvabile. Questa la sintesi del Bernabè-ragionamento. Un po’ poco per un’industria decotta, fuori mercato, al di là della storia, come quella tarantina. Dispensatrice di morti e malattie più che di profitti e dividendi. Esempio plastico di come il lavoro si risolva alla fine, ma anche all’inizio, nella sua negazione. Nell’utilizzo massiccio di ammortizzatori sociali.
Un tempo esisteva la Cassa del Mezzogiorno, oggi siamo al cospetto della cassa integrazione. Ad ognuno la propria cassa – o casta. Lo Stato che non aumenta la propria quota azionaria, che lascia ad Arcelor il controllo del siderurgico, sembra aver gettato la spugna sull’Ilva. In maniera definitiva questa volta. Qui non c’entra il ministero del Made in Italy, riproposizione orgogliosa – e parecchio buffa – della destra al potere. Non ha alcun senso ribadire che siamo la seconda manifattura del continente (per quanto altro tempo ancora?). Che l’acciaio dobbiamo produrcelo in casa piuttosto che comprarlo all’estero. Fuffa. Stupidaggini da dibattito pubblico derelitto. Scienze economiche del trapassato remoto. Il mercato, il capitalismo che mette il turbo, non si lascia influenzare dalla politica. Fa l’esatto contrario: influenza la politica. La condizione. La maltratta. Arriva a possederne l’anima, comprandosela. Per manifesta incapacità della stessa nel sapere reggere il confronto in posizioni di parità.
La crisi dell’Ilva di Taranto è globale, non locale. La sua morte è stata decisa altrove. Non da oggi, ma da almeno tre decenni a questa parte. Da quando i governi dell’Ulivo, nei primi anni ’90 del secolo scorso, quelli con Prodi e Bersani, decisero che caduto il Muro di Berlino l’Italia dovesse aprirsi alle privatizzazioni. Alle privatizzazioni senza liberalizzazioni. A privatizzazioni digiune di cultura liberale. A oligopoli privati che si sostituissero a monopoli pubblici. Tutto questo, però, domani non lo leggerete su Affari&Finanza.