Non finirà la sinistra sino a quando permarrà un solo grumo di disuguaglianza nel tempo che ci è dato vivere. Sino a quando problemi complessi necessiteranno di soluzione altrettanto complesse. E la modernità non verrà vissuta come spauracchio, la somma diversità che mette a nudo i nostri timori, ma come un’opportunità da caldeggiare
C’è vita a sinistra? In una sinistra che diviene ragionamento culturale, progetto per le generazioni future? In una sinistra che non si culli nell’eterno presente? Che non si rassegni al culto dell’immagine? Sembrerebbe proprio di sì, nonostante il de profundis accordato alle tesi progressiste da un capitalismo poco empatico. Autoreferenziale. Pernicioso nella sua lettura monocorde dell’esistente. Demolente e poco inclusivo. C’è vita a sinistra perché senza la gauche neanche la destra avrebbe più un senso compiuto. Le coppie valoriali si sostengono a vicenda, come si sa. E l’una specificità assolve all’altra, seppur da posizioni diametralmente opposte; o, perlopiù, assai distanti. In caso contrario, periscono entrambe. Si annullano vicendevolmente. Sinistra di governo, evidentemente. Sinistra con il cruccio del programma, del grande guizzo ideale, più che infervorata per il richiamo della piazza. Sinistra di proposta. Con il riformismo in bella mostra. Con la stella polare del liberalsocialismo a segnarne il passo e a indicarne la via. Con la modernità – e le aporie che alla stessa si accompagnano – da incontrare sul terreno mediano della governabilità. Partendo dall’insegnamento dei classici, dal lavorio delle idee sedimentatesi nelle tortuose controversie della Storia, dall’esempio consegnatoci da uomini visionari, nei limiti del possibile, senza inopportune fughe in avanti, affinché si renda esplicito quanto una certa pubblicistica, pronta (e prona) nello strizzare gli occhi alle mode del momento, avvezza nel salire sul carro dei vincitori, per dirla con le parole di Ennio Flaiano, ha volutamente reso opacizzante. Sbagliano, a nostro avviso, quanti ritengono come ascrivibile al pensiero di destra il nuovo secolo. Più incline nel recepirne un messaggio di chiusura e paura al tempo stesso. Di ritorno ad un passato che non si vuole lasciare passare (chiedo venia per il bisticcio di parole). La destra è per la conservazione tout court. La sinistra liberale, invece, come ci ha insegnato Carlo Rosselli, come ci ha suggerito Gudo Calogero, come ci ha ammonito Aldo Capitini, coniuga il progresso con l’identità della tradizione. Il qui ed ora con la fecondità dei pensieri lunghi. E, al tempo stesso (non ce ne voglia Norberto Bobbio), rende poco belligerante il confronto mai semplice – e appuntito – tra libertà ed uguaglianza. Questa sinistra è servita e serve alle nostre società. Ieri come oggi. Ieri per rendere l’offerta di servizi sanitari accessibile a chi, senza l’ausilio di una funzione pubblica, di un ruolo equilibrante dello Stato, sarebbe stato abbandonato al proprio destino. Lasciato ai margini. Reso ultimo tra gli ultimi. Ieri per facilitare l’istruzione scolastica non ai soli ricchi. Ieri per rendere attuabile una riforma agraria che spuntasse le armi ad una proprietà terriera ingorda e latifondista. Ieri per allargare la partecipazione democratica dei cittadini alle vicende del Paese. Oggi per mitigare la globalizzazione con la sua devastante carica di iniquità che ne precede – e attraversa – le mosse. Oggi per non continuare a perpetrare le discriminazione di genere con posture da tardo Medioevo. Oggi per riportare il pianeta, con il disastro pandemico del Covid-19 ancora in mezzo a noi, ad un’idea sostenibile di sviluppo. Ad un processo etico di accumulazione del profitto. Se non ci fosse la sinistra queste cose non potrebbe farle nessun altro. Non vorrebbe farle nessun altro. Per questo il socialismo democratico viene sempre più definito come la consacrazione di una civiltà, un certo modo di stare al mondo, di approcciare alla quotidianità e non, semplicemente, come il solo affermarsi di volatili opzioni partitiche. Non è finita la Storia dopo il crollo del Muro di Berlino. Non finirà la sinistra sino a quando permarrà un solo grumo di disuguaglianza nel tempo che ci è dato vivere. Sino a quando problemi complessi necessiteranno di soluzione altrettanto complesse. E la modernità non verrà vissuta come spauracchio, la somma diversità che mette a nudo i nostri timori, ma come un’opportunità da caldeggiare. Lukàcs avrebbe detto: “Una sinistra che considera il socialismo alla stregua di un cane morto, e vive solo in un eterno presente, il suo avvenire lo ha dietro le spalle”. Seppellito in un chiacchiericcio di banalità. Nel decadente conformismo di pensieri deboli. Nel gioco a somma zero di valori annullatisi per ingraziare il demone di un potere arroccato ed arrogante. Portare avanti chi è nato indietro. La più bella definizione di sinistra – e di socialismo – la diede Pietro Nenni. Portare avanti un uomo. Un’idea. Una suggestione. Un lavoro. Portarsi avanti per non restare indietro. Prendendosi dei rischi, cullando un’illusione, intravedendo l’orizzonte. Emancipare i diritti, rinvigorire le libertà. Nel mondo nuovo del quale scrutiamo a malapena le prime sembianza, e intuiamo i probabili accadimenti, c’è bisogno di più – e non meno – sinistra. Un bagno di civiltà negli oscurantismi luccicanti di questa epoca.