L’ideatore delle Scienze Politiche, intese come insegnamento universitario, come prassi accademica, è pochissimo ricordato in un’Italia buffonesca. Votata alla dittatura dell’improvvisazione. Senza il suo pensiero capiremmo poco del funzionamento delle democrazie. E dei pericoli che ne minano la sopravvivenza
Tutto è politica, pochissimo è Scienza della Politica. Nel Paese del cazzeggio permanente, dell’improvvisazione scanzonata, dei talk-show a reti unificate, ad ogni ora della giornata, le teorie appaiono ai più come inutili orpelli. Meglio la pratica dozzinale, l’esperienza coatta che sopravanza – e distorce – la competenza accademica. L’isterismo della parola in luogo della riflessione concettuale. Se queste sono le premesse, se il nostro humus pubblico non contempla l’intelligenza fertilizzante, c’è poco da meravigliarsi se ad avanzare poi, con fare deciso e impenitente, ci ritroviamo l’Alzheimer del buon senso. Una sorta di perdita collettiva della memoria; e delle identità diffuse. Un esempio di questa cancellazione scientifica del valore manifesto è rappresentato dall’oblio che si vuole far discendere sulla figura di Giovanni Sartori: il più importante politologo italiano della nostra storia contemporanea. Il propugnatore delle scienze sociali incardinate lungo la via dell’originalissima ingegneria costituzionale. Fu lo stesso Sartori a coniare l’espressione “asinocrazia”, il potere attribuito ai più stupidi. Ai meno capaci che passeggiano nelle società del momento. Con l’intento dichiarato, stabilito altrove, di affossare le democrazie che alla partecipazione non hanno saputo bilanciare la competenza.
In Italia prima del professore fiorentino, le Scienze Politiche non esistevano. Il loro insegnamento era celato in corsi altri: sociologia, per esempio. Nel Paese che aveva dati i natali a Macchiavelli, che aveva codificato il diritto con l’Impero Romano, l’arte – e la tecnica – politica erano cadute in disuso. Non si conoscevano. Per ritardi culturali, per pigrizia intellettuale. Fu Sartori a spiegarci il significato di comparazione tra un sistema (politico) e un altro. Tra una legge elettorale e un’altra. Tra un pluralismo partitico polarizzante e un modello a partito unico che schiude, in maniera definitiva, le porte alla dittatura. Con il suo “Homo videns”, una delle tante pubblicazione regalate per mitigare lì dove presenti i pruriti della conoscenza, intravide con largo anticipo la mutazione antropologica della comunicazione politica. La “video politica”, ripeté in più occasioni, “converte l’elezione in un evento altamente fortuito, dove il vincitore è il risultato di un match televisivo determinato prevalentemente dall’aspetto. Dalla faccia che piace di più”. Sartori c’indicò un metodo ancor prima di condurci per mano verso il merito delle questioni. Insegnò per molti anni negli Stati Uniti, a Stanford, amalgamando la filosofia del diritto con le dottrine dello Stato. Solo un Paese debosciato, di asini presuntuosi, di prezzolati agitatori della lingua, poteva dimenticarsene. Dimenticarlo. Voltare le spalle al ricordo che è amico di scorribande del talento. Sartori ne avrebbe riso. Brutto affare l’invidia, sopravvive anche alla morte.