giovedì 21 Novembre 24

Tamburi lontani

Storia e spettri dell’ormai famigerato quartiere tarantino: aveva le vie con i nomi dei fiori, oggi è soprattutto una terra di croci

Nomi che diventano numeri, numeri che diventano croci. Storie e spettri che a Taranto si rincorrono senza più scopo. Solo, vento: quello delle polveri assassine. O quello del tempo. Il quartiere dello scandalo, la famigerata, odierna Terra della Desolazione si chiama ‘Tamburi’, pare, per un rumore caratteristico: quello dell’acqua che scorreva tra gli archi dell’acquedotto. Lo ultimò nel 1543, sullo scheletro romano del Triglio (VII sec. a.C.), l’architetto tarantino Marco Orlando. Lungo la via Taranto, propaggine di via Orsini (la dorsale tamburina) che costeggia l’Ilva direzione Statte, gli archi furono, o sarebbero, 203: se l’incuria e i metalli sicari non ne aggiornassero di continuo, al ribasso, la cifra. Magari la colpa è dello stesso Orlando: avrebbe dovuto avere la vista un po’ più lunga, l’architetto, perlomeno di 450 anni. Del resto alcune perle sono decisamente più recenti. La proverbiale è dell’ex ministro dell’Ambiente, Corrado Clini ( 8 agosto 2012), convinto sostenitore della fake per cui è stato il rione a ridossarsi al Siderurgico, non viceversa: “Modo assolutamente scriteriato di localizzare abitazioni”. Clini avrebbe cercato di superarsi, esprimendosi in merito all’emergenza sanitaria e alla tragedia tumorale (23 ottobre 2012): accollarne la colpa all’Ilva “è operazione tecnicamente scorretta”; o anche, nella stessa giornata: “Mi sembra un po’ azzardato sostenere che i mesoteliomi dipendano dall’Ilva”.

Non che sia stato impossibile dire di meglio. Così il Commissario Straordinario Enrico Bondi, il 15 luglio dell’anno seguente, in una lettera al Governatore Vendola: “E’ erroneo e fuorviante attribuire gli eccessi di patologie croniche oggi a Taranto a esposizioni ambientali occorse negli ultimi due decenni (quelli della proprietà Riva, ndr). Le responsabilità sono attribuibili a fumo di tabacco e alcol ”. In quanto città portuale, chiarirà ulteriormente Bondi, Taranto fuma molto. Moltissimo.

Di rabbia, soprattutto. E di scrupolo, di rimpianto tardivo, di dolore assordante, di lutto pervasivo: epicentro ‘Tamburi’. L’ex Italsider (partecipazione statale) fu inaugurata nel tripudio dei comizi (e non solo di questi) il 9 luglio del 1960. Cominciava quel giorno l’epoca del posto fisso, dello stipendio lauto, degli straordinari a pioggia. Anche delle morti bianche e nere, ma per decenni l’attenzione sarebbe stata relativa, episodica. Politica e cittadinanza si sarebbero affratellate nell’inno storico di certa tarentinità: a ce me dé’ pane, chiame tatà, chiamo papà chi mi dà da mangiare. A metà anni Settanta Taranto svettava tra le città italiane per reddito pro capite. La Terra della (successiva) Desolazione avrebbe ballato felice sulla prua del Titanic con un mensile goloso e inedite pizzerie, ristoranti, passeggiate, possibilità mai immaginate in una vita precedente di economia marittima o agricola. Una vita in cui ai ‘Tamburi’, incredibile a narrarsi, venivano a vivere quelli che amavano l’aria buona, le vie avevano i nomi dei fiori, i palazzi che sorgevano (quello ‘Ferrovieri’, di cui resta lo scheletro), purtroppo per Clini, costruivano la comunità ignari di fabbriche e la Vergine col bimbo (statua eretta nel 1953 ed emblema del rione) doveva salvare i pescatori dalla tempesta, non gli operai dagli altoforni né i cittadini dal Drago.

Una rivelazione fatta su via Orsini per il triennio 2003-2006, ampiamente in epoca-Riva (la famiglia di industriali che ha acquistato il siderurgico nel 1995) rivelò valori di benzo(a)pirene dieci volte superiori a città come Milano e Roma, e comunque peggiori di quelli di San Paolo, Chicago, Hong Kong, Los Angeles, Atene. Soltanto cinque chilometri in là, ossia in centro, la quota si abbassava drasticamente, sin quasi a rientrare nelle medie generali di inquinamento ambientale. L’onda lunga dei dati tumorali sempre più circostanziati ha infine indotto (luglio 2012) la coraggiosa gip Patrizia Todisco a perseguire legalmente l’operato della famiglia Riva e a porre sotto sequestro l’intera area; provvedimento subito rintuzzato dal Riesame e, fondamentalmente, dai successivi Salva-Ilva, di cui si è perso il conto. Popolato quarant’anni fa da quarantamila cittadini, ciò che oggi il quartiere sa di sé stesso è che lo spopolamento è crescente (18mila scarsi), che il prezzo delle case è ovviamente divenuto risibile, che un giorno sì e uno no qualcuno propone (ultimo il Codacons) un’evacuzione emergenziale, senza però specificarne i modi, e che alla nuova proprietà dello stabilimento, la Arcelor Mittal, è stata garantita l’immunità penale. Più che la pietà di Maria Ausiliatrice, sui Tamburi veglia oramai il famigerato camino E312, regista e interprete principale dei venti da nord. Lo hanno chiamato ‘wind day’: quando tramontana o maestrale salgono di nodi, il sindaco di turno chiude tutte le scuole rionali e informa i tamburini di ciò che non possono: per esempio aprire le finestre tra le 12 e le 18 o compiere attività all’esterno, secondo modalità di coprifuoco concordate tra Arpa e Asl. Sarebbe un tentativo di protezione dal benzo(a)pirene e dal pm10, ‘Materia Particolata’ che va dritta agli alveoli polmonari e che ingloba polveri, fumo, microgocce di sostanze liquide sotto le spoglie di nebbiolina. Non fosse omicida, sembrerebbe romantica.       

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